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LE LAUREE TRIENNALI NON DECOLLANO

Su Jobtel, portale d'orientamento del Ministero per le Politiche Sociali, è stato pubblicato un articolo che cerca di fare un bilancio delle lauree triennali.

La laurea triennale è un traguardo finale o uno step intermedio? Secondo le prime indagini sulle prospettive dei laureati nel nuovo ordinamento, solo una minoranza dice addio ai libri dopo il titolo triennale. Gran parte degli studenti rimanda così l'appuntamento con il mondo del lavoro e, con il primo "pezzo di carta" in tasca, inizia la caccia alla laurea specialistica.
I dati nazionali di Almalaurea relativi al 2004 parlano chiaro: su 47 mila laureandi di primo livello interpellati, oltre il 76 per cento si è dichiarato intenzionato a proseguire, contro il 54 per cento dei laureati del vecchio ordinamento.
Da un'indagine successiva è risultato che il 66 per cento dei "triennalisti" abbia poi puntato proprio sulla laurea di secondo livello (più che su master o scuole di specializzazione).
L'intenzione di proseguire raggiunge punte del 95 per cento nel gruppo disciplinare psicologico, dove evidentemente la laurea triennale è vissuta come un passaggio obbligato per arrivare ad altri obiettivi.
Questo trend, rilevato qualche mese fa, è confermato anche da altre ricerche di carattere territoriale.
Il consorzio interuniversitario lombardo "Cilea" ha presentato nei giorni scorsi un rapporto su otto atenei in cui si confrontano le scelte di laureati triennali e di vecchio ordinamento che hanno concluso gli studi nello stesso periodo (in questi anni i due modelli universitari si sono trovati a coesistere).
Ciò che emerge chiaramente è la maggiore propensione dei laureati del nuovo ordinamento a proseguire, in misura doppia rispetto agli altri. Grazie alla formula del nuovo ordinamento la percentuale di studenti che si laurea fuori corso è diminuita.
Ma contrariamente a quanto previsto dagli ideatori della riforma (l'idea di avere giovani dottori capaci di competere con i colleghi europei), chi si laurea in corso non si affaccia sul mercato del lavoro.
Almalaurea rivela che proprio gli universitari "regolari", cioè i laureati under 23, sono più portati a proseguire la formazione con la laurea specialistica. Succede mediamente nell'85 per cento dei casi, con punte del 92 per cento tra i laureati del Sud.
Una così alta percentuale di iscritti al biennio successivo alla laurea triennale rappresenta certamente un'anomalia, almeno rispetto agli scopi che hanno mosso questo disegno di riforma.
Come si spiegano questi dati? Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, individua tre motivazioni, partendo dalle difficoltà del mondo del lavoro: "È vero, c'è una parte persino eccessiva di studenti che chiede di proseguire.
Il problema però non è solo la struttura di questa riforma. Il mondo del lavoro, in tutti i settori, vive un'oggettiva fase di stagnazione che rende difficile l'immissione dei laureati.
Così si crea una percezione negativa delle prospettive occupazionali e l'università diventa un parcheggio.
Era così già prima della riforma, ma ora, con il 3+2, gli atenei sono diventati un parcheggio a due piani.
Eppure sulla carta l'Italia avrebbe un gran bisogno di laureati, visto che Spagna, Francia e Inghilterra ne sfornano il triplo di noi".
La seconda causa che, secondo il direttore di Almalaurea, sta alla base del plebiscito a favore del percorso di laurea completo, va ricercata all'interno degli atenei: "I docenti sono scontenti e non aiutano gli studenti a compiere una scelta serena.
Quante volte i ragazzi si sentono ripetere, in aula, che la laurea triennale non è sufficiente, che è un titolo di serie B...
Questo atteggiamento è dovuto soprattutto al nervosismo dei professori, costretti a ripensare i corsi di studio in tempi rapidissimi. È stato lasciato poco tempo ai docenti per entrare davvero nello spirito della riforma”.
L'ultima motivazione è squisitamente finanziaria: "Quella del 3+2 - conclude Cammelli - è una riforma che si può definire 'a finanziamento zero'.
I rettori sono in difficoltà a far marciare il nuovo ordinamento, perché nel bilancio di un ateneo sono importanti anche gli introiti derivanti dalle (più costose) lauree di secondo livello.
Attualmente un ateneo non vuole rischiare di perdere gli studenti dopo tre anni. Alla luce di tutto questo, mi domando da dove possano provenire gli stimoli per convincere un ragazzo a fermarsi alla triennale".
Non siamo prevenuti, ma questo sistema non va bene, perché non si basa sulle esigenze delle imprese. A margine dei dati sull'alta propensione dei ragazzi a proseguire gli studi dopo la laurea triennale, rispunta una polemica da parte del mondo delle professioni.
Sergio Polese, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, non usa mezzi termini per far capire che la riforma universitaria del 3+2 è a suo avviso inadeguata, soprattutto se applicata alle facoltà - come quelle di ingegneria - che prima richiedevano un piano di studio di cinque anni.
A questo proposito, i dati Almalaurea sui laureati 2004 parlano chiaro: degli 8.936 ingegneri del vecchio ordinamento interpellati, solo il 29,3 per cento ha manifestato l'intenzione di proseguire gli studi oltre i cinque anni già investiti.
Tra i 6.486 laureati con la triennale, invece, l'80,8 per cento ha dichiarato di voler continuare e (secondo un'altra indagine su un campione più ridotto) il 78 per cento si è effettivamente iscritto a una laurea specialistica di secondo livello.
Il presidente dell'Ordine degli ingegneri parte proprio da questi numeri per spiegare il suo punto di vista sulla riforma: "L'ipotesi di partenza del legislatore - spiega Polese - era creare figure professionali diverse da quelle esistenti. Un concetto condivisibile nelle intenzioni.
Però sarebbe stato corretto dire quali mansioni possono svolgere i laureati della triennale. Invece, la riforma ha disciplinato le attività in maniera non chiara, facendo riferimento a non meglio specificate attività semplici".

Da qui la difficoltà delle aziende, che - secondo il presidente - non sanno come impiegare i laureati triennali: "Da quello che sappiamo, dopo una prima fase con buoni segnali, le assunzioni dei cosiddetti 'ingegneri-junior' stanno calando e aumenta, di conseguenza, la percentuale dei giovani che continuano gli studi per ottenere un diploma equivalente al vecchio titolo".
Secondo l'indagine su otto atenei firmata dal Cilea, invece, la risoluzione del problema dipende anche dalle imprese: "I dati del settore di ingegneria dimostrano che per il laureato triennale non è facile l'inserimento nel mondo del lavoro, anche perché questa figura non è sempre compresa e adeguatamente utilizzata dalle aziende, e che anche coloro che hanno trovato un'occupazione non sono soddisfatti del livello raggiunto.
I giovani laureati indicano comunque l'esigenza di rimodulare i programmi di studio". Gli ingegneri non sono gli unici a trovarsi disorientati al termine dei tre anni. Polese affronta anche un discorso più generico: "Il problema riguarda anche le altre professioni.
Si è detto che sarebbero state utili al mercato del lavoro figure professionali che hanno studiato un po' meno, ma non si è detto per che cosa. Io sono abituato a ragionare in termini di progetti: non posso approvare un piano di lavoro se non è chiaro l'obiettivo che esso vuole perseguire.
Allo stesso modo non capisco perché si è cercato di proporre nuove figure professionali senza dire che cosa saranno realmente in grado di fare".
Il cuore del problema starebbe nella struttura dei nuovi corsi: "Non mi convince l'idea della formazione in serie, che di fatto rende la triennale un pezzo del percorso del 3+2.
Ci vuole un percorso differenziato, per fare in modo che il laureato di tre anni abbia delle specificità diverse da chi porta a termine tutto il ciclo.
In questo senso, mi sembra buona l'idea di un primo anno comune a tutti, prima di una scelta definitiva: altri due o altri quattro anni, con materie e programmi differenti".
L'altra strada, più radicale, è quella delle facoltà mediche, dove il corso di laurea specialistica è a ciclo unico, mentre le triennali (che corrispondono ai vecchi diplomi) sono altamente professionalizzanti. E il "prodotto", ovviamente, è diverso.

Tratto da: la Repubblica, dicembre 2005.

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